«Non mi interessa ciò che è stato fatto all’uomo, ma che cosa egli fa di quel che è stato fatto di lui».
Jean-Paul Sartre, citato da Franco Fortini ne I cani del Sinai
Scusate il gioco di parole: La zona d’interesse, ultimo Glazer, è giunto in sala glassato. Il primo strato venne steso a Cannes dove, nonostante la mancata palma, la critica che conta l’ha ricoperto di un coro pressoché unanime: questo è il film non solo bello, anche importante. Evviva. Merito del film, ovviamente merito del tema perché non c’è argomento che più della Shoah fa importanza ed è pure ulteriormente drammaticamente riattivato dalla cronaca e merito forse anche del più o meno conscio bisogno diffuso pregresso di un film che sia finalmente bello e importante, che segni un momento di discontinuità ed evoluzione etica e estetica for each una settima arte percepita tutto sommato stagnante, senza più rivoluzioni, adagiata su rendite di posizione. La ciliegina sulla torta è stato l’Oscar preventivatissimo e la certificazione di importanza trasversale dal sommo snob al sommo pop. Dato a Glazer quel che è di Glazer, togliamo la glassa e proviamo a guardare l’oggetto-film.
«Volevo che gli spettatori si rendessero conto di essere occur sommersi». Serve un coraggio d’altri tempi for each aprire con uno sfacciato gesto more-filmico marcatamente teoretico da teatro della crudeltà, che serve a destabilizzare, chiamare in causa, costringere allo straniamento, letteralmente terrorizzare lo spettatore segnalando al contempo l’importanza della visione che sta cominciando. A memoria l’ultimo esempio tanto eclatante period stato compiuto, non a caso, da Michael Haneke (sarà ovviamente un riferimento ricorrente) con il ribaltamento di sguardo tra spettatore e spettacolo che apre Amour. La zona d’interesse comincia gettandoci in una camera di deprivazione sensoriale: alcuni minuti di nero assoluto e partitura atonale firmata Mica Levi. Wittgenstein scriveva che in una giornata si possono vivere tutti i terrori dell’inferno perché di tempo ce n’è più che abbastanza. Glazer e Levi ribattono che provide molto meno tempo. Fosse solo for each questo motivo, La zona d’interesse va visto in sala: la prima non-scena è già manifesto e concettualizza le questioni cardinali del “male ambientale” e della localizzazione dell’orrore nel rapporto tra campo e fuori campo (di concentramento). En passant, notiamo anche arrive il precedente film bello, importante e nuovo attorno all’Olocausto, Evolution di Kornél Mundruczó, venga aperto da un dispositivo uguale e contrario ovvero l’esperienza immersiva, tra videoarte e realtà virtuale, in una delle “docce” di Auschwitz. La ricorrenza ci dice almeno una cosa elementare: è necessario trovare modi nuovi per mostrare la Shoah perché, dopo innumerevoli rappresentazioni, sia ancora visibile.
Nel prologo il sonoro ambientale interagisce in modalità musique concrète con la colonna sonora poi va a sostituirla e serve a localizzare quasi interamente l’orrore nel piano uditivo – è davvero l’inferno: da oltre il muro vengono urla, spari, lamenti, abbaiare di cani, l’apocalisse di Bosch che period il campo di lavoro e sterminio. Il audio designer Johnnie Burn up ha trascorso un anno di fieldwork costruendo una libreria sonora completa di tutti i suoni che si ascoltavano advert Auschwitz allora. E, per i titoli di coda che replicano l’esperienza sonora allucinatoria iniziale, registra e distorce i fischi e le grida di un gruppo di cantanti. Il campo visivo invece resta semi-sgombro. Sarebbe interessante fare un esperimento, portare al cinema alcuni spettatori totalmente ignari chiedendo di indicare il momento in cui hanno capito dove si trovavano. Probabilmente accadrebbe dopo circa una dozzina di minuti for each by means of della sagoma familiare delle torrette e dei muri sullo sfondo. Lo sterminio, però, entra in campo solo in forma di resto (resto sonoro oppure, orribilmente, cenere, il materiale di scarto più copioso e celebre dei lager nazisti). La zona d’interesse è ostinatamente altro, dal punto di vista formale, rispetto al filone del cinema dell’Olocausto cominciando dalla luce – i toni grigi o il bianco e nero programmatico usuali lasciano spazio a un film luminosissimo, innaturalmente troppo luminoso arrive una foto Huawei, abbagliante e disturbante per eccesso opposto – e dallo spazio. Il centro del movie, la zona d’interesse, è ovviamente la bella villa che realmente esisteva a lato del campo, abitata dal comandante Rudolf Hoss e famiglia. Il movente iniziale del movie è stata proprio l’ossessione personale di Jonathan Glazer for every questo oggetto inquietante cui è riservata l’attenzione maggiore. Le scene in interno sono riprese piazzando dieci camere a circuito chiuso dirette da remoto for each creare, nelle parole del regista, «una casa del Grande Fratello piena di nazisti», destabilizzando in senso teatrale e comportamentista la recitazione. «Non volevo il dramma, non volevo feticizzare i nazisti, volevo osservare questi personaggi nella vita quotidiana». Il procedimento genera simultaneamente uno spazio filmico panottico paranoide e destrutturato (dicendo anche che il focolare domestico non è normale né innocente) che è mappato in modo schizofrenico tra piani sopraelevati e seminterrati che si espandono arrive livelli di un videogame. E c’è poi il giardino-Eden continuamente percorso in piano sequenza, esplorato e congelato in quadri rubati ai giardini di delizie di Cranach o agli acquerelli naturalistici di Durer, l’oasi traboccante vita e bellezza speculare alle idilliche gite nella campagna polacca, hortus conclusus recintato dai muri dello sterminio e concimato con la cenere dei cadaveri bruciati.
La domanda più ovvia, ritrita, banale non è meno importante essendo più che mai attuale: come è stato possibile? Cosa dice tutto ciò a proposito della natura umana? Seppure in termini molto differenti, in Sexy Beast come in Beneath the skin, Glazer ha spesso ragionato sulla capacità tutta umana di essere contemporaneamente individui amorevoli e affettuosi e autori di crudeltà indicibili. Il romanzo di Martin Amis ispirato alla vera storia della famiglia Hoss – la moglie è morta serenamente nel 1981, ultraottantenne, continuando a affermare che non sapeva nulla, non sospettava nulla – funge soltanto da griglia cell, da materiale grezzo di partenza per elaborare, rispetto alla domanda banale ma necessaria di cui sopra, ipotesi di risposta for each nulla banali. La zona d’interesse segna delle discontinuità con il filone Olocausto non soltanto in termini formali. Auschwitz non è la consueta esplosione di malvagità demoniaca bensì pura necropolitica capitalista. Non soltanto viene esplicitato in ogni modo possibile il legame di dipendenza e di organicità strutturale del routine nazista rispetto all’industria e al capitale tedesco – un atto di parresia già effettuato da un marxista appear Luchino Visconti ne La caduta degli dei – ma si sottolinea una parentela ideologica che arriva alle radici, al fatto antropologico. A Rudolf Hoss – che vediamo nel film trattare con ingegneri e chimici arrive fossero rappresentanti commerciali qualsiasi – si deve l’applicazione del fordismo al genocidio, l’introduzione del gas Zyklon B for every massificare, ottimizzare e velocizzare le uccisioni. Rudolf Hoss è anche un padre amorevole, un marito infedele ma attento e un uomo noioso oltre che incidentalmente un criminale contro l’umanità: un personaggio che ha qualche tangenza col protagonista de L’avversario di Emmanuel Carrère. Rudolf Hoss è anche e soprattutto l’apicale di plurime «creature non pensanti, borghesi, carrieriste» che prosperano attorno allo sterminio di ebrei, rom, omosessuali. Il film di Glazer esplicita la discendenza diretta dell’Olocausto dall’ideologia e dalla forma di vita capitalista e da quella borghese. Non c’è meno violenza nella moglie Hedwig che “fa purchasing” con i beni sottratti ai deportati e (finge di) non vede(re) al di là del proprio giardino. E neppure nella suocera orgogliosa for each la buona posizione raggiunta dal genero e dalla figlia mentre è accompagnata in un allucinante giro della proprietà che gela il sangue quanto i forni crematori perché espone l’orrore che può annidarsi nella normale ferocia delle pulsioni e della tensione al nucleo e all’autorealizzazione, nelle estreme conseguenze del familismo amorale dei borghesi. Si è tentati di dire, in modo semi-consolatorio, che si tratta di personaggi senza coscienza. Invece la conclusione radicale del movie di Glazer è che si tratta di personaggi senza scrupoli, che “non vedono” ciò che sta fuori il perimetro domestico perché non ne sono toccati, non considerano l’altro degno di considerazione, protezione, lutto ma letteralmente Untermensch. Nazism starts at home. Il saccheggio e l’eliminazione del gruppo umano sottoposto non è mai tematizzato nei dialoghi ma esce occur un inciso del discorso e allo stresso modo nessuno si preoccupa della natura della cenere finché fertilizza, genera ricchezza e censo. Il tema arendtiano della banalità del male, della burocratizzazione come lubrificante del genocidio è più volte ribadito ed è condensato in una battuta folgorante, quando Hoss chiude un telegramma con “Heil Hitler eccetera”. C’è infine un’insistenza pressoché inedita che chiarisce definitivamente l’aggiornamento e l’approfondimento ideologico apportato da Jonathan Glazer al tema. Gli Hoss si definiscono a più riprese, orgogliosamente, “coloni” e dichiarano l’adesione (sincera o strumentale? non cambia nulla) alla sacra missione messianica proclamata da Adolf Hitler a proposito del Lebensraum, dello spazio vitale a Est, dell’espansione e della germanizzazione dei popoli inferiori. Chi ha orecchie for every intendere intenda. Va notato appear un movie che programmaticamente veicola il senso attraverso l’audiovisivo, un movie poco parlato dai dialoghi banali e burocratici, apra il campo con bombe ideologiche sganciate da singole parole chiave dirompenti semi-mimetizzate dentro il discorso.
Ogni testo che affronti la Shoah, lo sterminio nazista del popolo ebraico non può sottrarsi al confronto con una letteratura sconfinata. Non ho trovato riscontri o menzioni e non so se fosse effettivamente nei pensieri del regista-sceneggiatore ma il riferimento più prossimo mi pare Piazza degli eroi di Thomas Bernhard, l’ultimo dramma teatrale e il più scandaloso, quello per cui il genio austriaco venne attaccato da ogni livello della politica e della stampa nazionale oltre che fisicamente aggredito e forse contribuì all’attacco cardiaco che lo uccise poche settimane più tardi. La Piazza degli Eroi di Vienna è una “zona d’interesse”, il luogo fisico dove venne dichiarato l’Anschluss: le grida naziste continuano a risuonare cinquant’anni più tardi in una nazione mai veramente denazificata, dove chiesa e borghesia alimentano lo stesso razzismo, lo stesso antisemitismo, la stessa intolleranza, la stessa ottusità ed è proprio il crescendo sonoro da incubo, correlativo di un fuori campo totalitario totalizzante, a spingere al suicidio un professore ebreo le cui finestre si affacciano sulla piazza. L’haunting di un’ideologia che si vorrebbe mostro, eccezione storica e invece è la normalità, la natura sociale si manifesta, come nell’opera di Glazer, attraverso la colonna sonora, nel suono ambientale. Se si parla di Olocausto è impossibile non citare uno dei saggi più importanti, brucianti e radicali del secolo scorso, già cinematografico grazie a Straub/Huillet: I cani del Sinai di Franco Fortini, scritto in occasione della “Guerra dei sei giorni” e indirizzato a «chi ha senza disgusto tollerato di ascoltare o di leggere dette e scritte for every gli arabi buona parte delle argomentazioni che trent’anni or sono la stampa hitleriana formulava contro lo Jude». Fortini delinea i motivi dell’unicità ritagliata all’Olocausto nazista e i pericoli della sua assolutizzazione anticipando il senso morale profondo de La zona d’interesse. «Evocare i macelli nazisti equivale a chiederne una chiave, una interpretazione. (…) Quel senso period: di aver riassunto, nella posizione di vittime e in una incredibile concentrazione di tempo e ferocia, tutte le forme di dominio e violenza dell’uomo sull’uomo proprie dell’età moderna di aver riprodotto advert uso di una sola generazione umana quel che diluito nel tempo, nello spazio, nella abitudine e nella insensibilità, le classi subalterne europee e le popolazioni colonizzate avevano subito occur diniego di esistenza e di storia, arrive alienazione reificazione annichilimento. Ma ricavare questo senso e una lezione di lotta contro le condizioni estreme a noi take note che rendono possibile la distruzione dell’uomo, di cui la strage ebraica è solo un esempio, è stato di pochi. Molti portavoce della cosiddetta “cultura” d’Occidente cercavano interpretazioni extra-storiche e metapolitiche e rapidamente giungevano a situare le stragi naziste nell’ordine del “sacro”, a considerarle opera del Male In Sé, in sostanza advertisement accettare, rovesciandone i contenuti, uno dei miti centrali della mistica nazista: la purezza o purificazione attraverso l’olocausto».
For every quanto riguarda le parentele cinematografiche ci limiteremo a tre paralleli significativi. Moloch, uno di tanti capolavori firmati Aleksandr Sokurov, raccontava la normalità, la vita quotidiana, la vacanza di Hitler, Eva Braun e altri altissimi gerarchi nel Nido d’Aquila bavarese del Berghof. Se ci sono legami a proposito della banalità del male, dello straniamento che alimenta l’orrore morale alla vista dell’umanità tragicomica di Hitler mentre blatera bizzarre teorie alimentari o si diletta in passeggiate alpestri in compagnia di Goebbels e famiglia, va segnalata la distanza formale e teoretica (quelli di Sokurov sono sempre pamphlet di etica e filosofia della storia) e il dettaglio for every cui Moloch fa parte di una trilogia sul Potere. La zona d’interesse in questo caso è anche geograficamente innalzata molto al di sopra della vita comune e borghese e del mondo reale for each poterne esplorarne la follia e il male essenziale mentre la contiguità fisica di casa Hoss con il lager ne palesa il rapporto saprofita, la causa-effetto, l’estrazione marxiana di plusvalore. Schindler’s Checklist è il doppio antinomico de La zona d’interesse, l’esatto opposto for every l’applicazione al patetico spettacolare del massimo grado di maestria da parte di Steven Spielberg. E anche, più sottilmente, perché per l’americano la fabbrica diretta dal Giusto tra le Nazioni Schindler, nazista redento e buono, capitalista illuminato, è letteralmente luogo di fuga e salvezza dove il lavoro rende liberi. Scegliendo una particolare storia vera Spielberg adombra la contrapposizione ideologica tra il mondo libero del libero mercato e il totalitarismo nazista. Al contrario, secondo Glazer, tra industria e lager non c’è soluzione di continuità. Il nastro bianco è sicuramente uno dei movie più belli e importanti del secolo corrente oltre che un film definitivo a proposito del nazionalsocialismo perché non lo nomina mai ma lo tiene costantemente aleggiante sopra e oltre il campo, il discorso. Per questa ragione, oltre che for every la categoria facile del “rigore”, non si può non pensare a un debito nei confronti del maestro austriaco. Tuttavia Il nastro bianco con tutto il suo rigore è un film profondamente enigmatico, intriso di una keatsiana detrimental capability che lo rende sommamente perturbante e sconvolgente, radicalmente crudele nei confronti dello spettatore. L’unico limite della bellissima, importantissima opera di Jonathan Glazer è nel teorema svolto con rigore matematico facendo tornare le somme, nel dispositivo inflessibile privo di smagliature. Glazer è lucidissimo, scompone la logica del nazismo e delle sue radici con piglio analitico britannico. Al punto che si ha spesso l’impressione di un oggetto vicino alla videoarte quanto al cinema.
Ci sono tre scene fuori serie che sembrano eccedere al teorema e sulle quali è il caso di soffermarsi. Le primary sono le sequenze strane, confuse e di difficile comprensione immediata girate con digital camera termica. Sembrano estratte da un videogame e il loro caotico spettrale evoca in modo associativo gli ambienti dei fratelli Grimm, della fiaba germanica, il repertorio folklorico che contribuì a plasmare il mito nazi. Si viene poi a sapere che l’immagine da Pollicino o Hansel e Gretel delle mele lasciate a modo di percorso introduce la storia vera di una bambina della resistenza polacca che passava di nascosto il cibo ai prigionieri del lager. Si chiamava Alexandria, Glazer l’ha incontrata e il movie le è dedicato. La rottura della forma segnala l’unico atto veramente umano, empatico dell’intero film. Al contrario l’immagine finale di Hoss che vomita in mezzo a un cannocchiale kubrickiano di scale e corridoi in un palazzo in stile nazionalsocialista resta non casualmente iperformalizzata perché – spiega il regista – nonostante ciò che potremmo inferire si tratta di una mera reazione fisica che non implica rigetto cosciente del proprio ruolo e delle proprie mansioni. Hoss resta fino all’ultimo ciò che è: un borghese piccolo piccolo capace di compiere insensibilmente atrocità colossali. C’è infine un’ultima scena fuori serie e fuori tempo – al tempo presente – inserita ex abrupto nel sottofinale: le riprese quasi Jeff Wall del campo di concentramento fatto museo con i reperti spolverati da inservienti. Difficile non leggere un riferimento ai rischi di una memoria museificata, alla assolutizzazione della Memoria riferita al solo vero genocidio al cui proposito ammoniva Franco Fortini già nel 1967. Il proliferare di lager e pulizie etniche letteralmente a fianco casa dalla Libia alla Palestina occupata, al cui rispetto l’Occidente non è per nulla innocente, le necropolitiche che osserviamo svolgersi in tempo reale senza muovere un dito danno ragione al regista: «Non ero interessato a fare un pezzo da museo. Non volevo che la gente avesse una distanza di sicurezza dal passato e se ne andasse senza restare turbata da ciò che aveva appena visto. Volevo dire che dovremmo sentirci profondamente insicuri per questa sorta di orrore primordiale che ci riguarda tutti. (…) Ero determinato a non fare un movie sul passato ma sull’oggi perché questo non è un documento. Non è una lezione di storia. È un avvertimento». Jonathan Glazer è stato ancora più chiaro e esplicito accettando l’Oscar al miglior film straniero quando, accolto da una parte di applausi e una parte di gelo, ha fatto irrompere la realtà dentro la liturgia allucinatoria car-assolutoria che è la premiazione degli Academy Awards ricordando che il suo film mostra «dove porta la disumanizzazione» e riferendosi inequivocabilmente a «ebraicità e Olocausto dirottate da un’occupazione». La zona d’interesse rinnova un genere a rischio esaurimento e parla del passato for every parlare al presente. E parlando al presente fornisce strumenti utili a riconoscere il genocidio dei palestinesi per mano israeliana. Veramente è un film importante.