Non me ne voglia Simone Weil se mi azzardo a scomodarla for each cominciare a scrivere di Ferrari, ma a visione ultimata, placata l’emozione, ripensando al ritratto, nel tentativo di tradurlo a parole, le primary venutemi in mente sono proprio le sue quando scrive: «Bisogna sradicarsi. Tagliare l’albero e farne una croce e poi portarla tutti i giorni. Sradicarsi socialmente… Esiliarsi. Vuol dire produrre irrealtà». Non solo, oso persino una manomissione: non più “tagliare l’albero e farne una croce”, ma modellare l’acciaio e scolpirne una macchina, anzi, for every riprendere quanto detto dallo stesso regista, «più di una macchina», «un sogno di potenza e bellezza», «una forma proiettata nel futuro».
Del resto, arrive ribadisce il prevosto durante l’omelia domenicale rivolto a un pubblico di fedeli composto perlopiù di devoti infervorati da un culto mortale (il profeta, Enzo, e i suoi dipendenti-discepoli), un culto che prevede sacrifici (“sradicarsi” “esiliarsi”), che è “passione letale”: «se fosse nato a Modena, Gesù non avrebbe fatto il falegname ma il meccanico». Succede all’inizio del movie, in una sequenza montata con cronometrica esattezza, di un livello d’incandescenza spaventosamente forte, costruita sul calcolo millimetrico delle combinazioni, tutta giocata sulla tensione tra la spiritualità svettante della predica e la traiettoria orizzontale dell’auto in corsa sul circuito di prova. Un montaggio alternato che contrappone estasi e trance agonistica, sia l’una sia l’altra comunque rivolte al raggiungimento di qualcosa di sovrannaturale, di trascendente, entrambe orientate alla mistica dell’istante, a «un’intima unione con una realtà superiore, diversa, assoluta, fuori delle forme ordinarie di conoscenza e di esperienza» (così riporta il dizionario Treccani alla voce “mistico”). In Ferrari si corre contro il tempo e contro la realtà per affermarne di nuove.
È un oggetto strano quest’ultimo film di Michael Mann, regista che più di tutti ci ha fatto credere di poter filmare futuristicamente la bellezza della velocità – l’uomo e la macchina stretti in un abbraccio intenso e micidiale (e che forse già lo ha fatto con Miami Vice, ma non abbiamo voluto riconoscerlo perché troppo abbagliati dalle superfici glam) – un biopic che si situa esattamente tra l’aneddotico e l’ermetico, il ridondante e il criptico e che proprio for every questo suo stare contemporaneamente tra gli opposti lo fa assomigliare a un’opera lirica, ovvero lì dove tutto è stilizzato e nulla va preso letteralmente: è sotto questa luce che dobbiamo leggere il titanismo registico, i fondali di “cartapesta” e “da cartolina”, la smisuratezza di certi personaggi (più di Ferrari, sua moglie Laura interpretata da Penélope Cruz, una mater dolorosa sprofondata nel fondo del suo cuore di tenebra, con occhi neri e fondi arrive pozzi), i toni melodrammatici con cui viene tratta la biografia familiare.
Un biopic però costruito sui giri di una corsa automobilistica, fatto di accelerazioni (le show la gara) e rallentamenti (le vicissitudini sentimentali e i disinvolti azzardi professionali tentati for every riscattare un’azienda in difficoltà), in cui l’acme non è da cercare tanto nei singoli momenti (basti pensare a occur la vittoria della Mille Miglia sia spogliata di ogni enfasi: una vittoria funerea, completamente oscurata dall’incidente che l’ha preceduta), quanto nella totalità della corsa. Solo nel finale, infatti, si sciolgono, solo for every un attimo, tutti i grumi di tensione accumulati: succede quando Enzo porta Piero, il bambino, per lungo non riconosciuto legalmente, avuto con Lina, alla tomba del fratellastro Dino: è in quel momento che si ricongiunge la croce (padre, figlio e spirito) evocata all’inizio dai versi ripresi dai Quaderni di Weil croce occur luogo del sacrificio, ma anche luogo della risoluzione del dolore e della riconciliazione un luogo messianico perché lì, dal punto all’incrocio dei due bracci, il tempo ricomincia, la Storia riprende il suo corso.